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SESSANTATREESIMA TAPPA
Cose viste di Ugo Ojetti Stanchi della rumorosa superficialità che avvolge i mass-media d’ogni tipo, cerchiamo una via d’uscita, un’oasi felice di gradevole scrittura e lettura piacevole, d’acuta profondità e limpidezza, d’incisiva lieve comunicazione. Vogliamo dimenticare la volgarità imperante, l’assenza d’educazione e rispetto ormai norma del vivere e del comporre. Che fare? Leggere qualcosa di differente, di raro, volutamente occultato da pregiudizi culturali diffusi spesso anche da docenti “tribuni plebis”. A volte basta il consiglio d’un amico colto e originale, una voce ‘fuori dal coro’. Qualche nome, sconosciuto ai più, professoroni compresi: Antonio Baldini, autore del delizioso libro Le scale di servizio; Lucio D’Ambra, acuto biografo di Giuseppe Parini ne Il poeta nella cipria; persino Guido Da Verona, intelligente e sarcastico parodiatore de I promessi sposi. Sorprendente, perché no?, è lasciarsi pervadere dal Notturno di Gabriele D’Annunzio, se capita la fortuna di accostare la prima edizione dei fratelli Treves nel 1923 con xilografie di Adolfo De Carolis. Non può, allora, mancare Cose viste, stupendi articoli del giornalista Ugo Ojetti (Roma, 15 luglio 1871 - Firenze 1° gennaio 1946), pubblicati in una scelta antologica dalla casa editrice di Cava de’ Tirreni Avagliano, con un saggio introduttivo di Toni Iermano nel 2002. Ce n’è per l’intera estate e anche oltre: una boccata d’aria fresca in un clima d’imperante ed opprimente omologazione. Prendiamo Ugo Ojetti e la sterminata produzione letteraria. Certo, il nome non dice granché oggi, ma l’uomo è stato uno dei più importanti giornalisti italiani. Fedele e fidato amico di D’Annunzio, dopo gli studi in legge, collabora a riviste e giornali, dal 1898 scrive sulla famosa Terza Pagina, ossia la sezione di cultura, del Corriere della Sera. Nel 1895 pubblica a Milano, per i fratelli Dumolard, Alla scoperta dei letterati: si tratta d’interviste ai più significativi intellettuali italiani del tempo, da Carducci, a Fogazzaro, da Verga a D’Annunzio. E, con il Vate, Ugo divide avventure e ideali politici: suo è il testo del volantino del volo su Vienna nell’agosto del 1918. Negli anni Venti aderisce al Fascismo, come la maggior parte degli artisti e letterati del tempo, da Pirandello, ad Elio Vittorini, Corrado Alvaro e Giulio Carlo Argan. Direttore, tra il 1926 e il 1927, del Corriere della Sera, è anche direttore di rilevanti riviste come Dedalo, Pan e molte altre. Ojetti collabora con prestigiosi quotidiani, ma anche realizza romanzi come Il figlio del ferroviere, racconti, resoconti di guerra e mondanità quali Le cronache del Conte Ottavio per l’Illustrazione Italiana di fine Ottocento. Possiede uno stile sobrio e profondo, di “acuto veditore”, come lo chiama l’autore abruzzese. E, in particolare, Cose Viste risultano un vero e proprio capolavoro di scrittura giornalistica, un bellissimo affresco della società italiana dal 1921 al 1941 circa: si tratta di elzeviri comparsi sulle pagine del quotidiano nazionale milanese. Il filo conduttore? Ce lo rivela Marino Moretti, poeta cesenate dagli esordi crepuscolari, sincero amico del giornalista: “L’illusione che mi conforta è quel solitario lettore tra cent’anni che troverà in Cose viste un limpido riflesso della vita nostra, di quello che è stata la nostra vita e il tema dei nostri pensieri o solo delle nostre cronache e conversazioni”. L’edizione napoletana raggruppa i brani per argomento. Compaiono luoghi italiani, incontri e ritratti, volti e racconti della Grande Guerra, memorie e aneddoti dannunziani, cronache della famiglia dei Savoia, ricordi d’infanzia, episodi di ‘varia umanità’. La prosa di Ojetti, è superfluo dirlo, scorre che è una meraviglia. Tutto è semplice e naturale, anche se frutto d’un capace intarsio di riferimenti colti. Parole cesellate e polite che noi leggiamo d’un fiato. Una magnifica lezione d’acutezza nel sentire e del descrivere gente, emozioni, storie piccole e grandi. La parola è talmente adeguata da sostituire senza rimpianti le immagini. Bellissimo! Viaggiamo tra le balze di Volterra, in compagnia d’un vecchio contadino che sa i mille segreti del paesaggio toscano (Le balze di Volterra, Volterra 1° settembre 1922, pp. 41-45); chiacchieriamo con la vedova ottuagenaria di Giuseppe Garibaldi nel pensiero d’un amor fou, una passione intensa ed assoluta nel brano Caprera (Caprera, Civitavecchia 29 gennaio 1923, pp. 45-53). Incontriamo, quasi nostri contemporanei, l’estroso folle scultore Vincenzo Gemito (Gemito, Firenze 17 maggio 1924, pp. 87-92). Sentiamo l’amicizia sempre presente fra gli scrittori Alfredo Panzini e Marino Moretti (Panzini e Moretti, Forlì 12 settembre 1924, pp. 92-100), ma anche il forte legame per lo storico antifascista Gaetano Salvemini in prigione (Salvemini in carcere, Firenze 11 agosto 1925, pp. 100-106). Intensi risultano, poi, i ritratti di Maria Pascoli (Maria Pascoli, Castelvecchio di Barga 10 agosto 1925, pp. 106-114), donna chiusa nella memoria del fratello scomparso, e della irruente Matilde Serao (Matilde Serao, Vallombrosa 10 agosto 1927, pp. 114-123). O commoventi risultano Giuseppe Verga (Verga, Catania 9 maggio 1931, pp. 132-141) e Pirandello (Con Pirandello, Roma 10 dicembre 1936, pp. 141-149), uomini soffusi di dolce tristezza e rimembranza acerba. Spicca su tutti, però, D’Annunzio: è, sì, l’eroe, ma più umano, vero nell’irrinunciabile malinconia. E sapere dell’amore per la madre, d’un autentico affetto adolescenziale, del desiderio insaziabile per i libri della Cappocina o di Gardone Riviera sono aspetti che fanno sentire il Vate più vicino, meno tonitruante ed enfatico del solito. Una riscoperta, davvero. Il giornalista cita, ad esempio, una lettera di Gabriele diciannovenne: “è fatale che io debba vivere così, sempre in un’agitazione, in un’irrequietezza indescrivibile, assetato di desiderio, di mille desideri l’uno più strano dell’altro, dilaniato dall’amore, torturato dall’arte, pazzo sognatore che reco il cuore palpitante tra la folla impassibile, e cerco, come per fatalità, in nuove cose tormenti nuovi, e vivo nel disordine, e lavoro con la stessa foga con cui tiro di spada, o poltrisco i torpori lunghi e spossanti, e languo nelle penombre lente dei salotti, o bevo avido l’aria vasta e la fulgida luce, prodigo, scialacquatore, temerario, generoso, affettuoso, innamorato di te, triste, gaio, da un’ora all’altra, indomabile e indomato” (D’Annunzio innamorato, Vallombrosa 15 agosto 1926, pp. 183-191). In un’ulteriore brano, Eleonora Duse, amata e amante di D’Annunzio, appare al giovane Ojetti, donna matura, di ‘ben’ trentasei anni. La passione per il poeta, comunque, la fa ringiovanire: “E poi ho quarant’anni…e amo!” (
Pure i resoconti di matrimoni o battesimi dei sovrani italiani, sono velati d’umanità e bonaria ironia. I reali, simbolo della Nazione, restano soli nel rappresentare il destino dello Stato: “Tutto ritorna in questa Italia eterna. E torneranno anche i poeti” (Commento alle nozze, Roma 11 gennaio 1930, pp. 219-227); “Anche il cerimoniale è, in fondo, una difesa di noi stessi, come è l’educazione” (Battesimo al Quirinale, Roma 31 maggio 1937, pp. 228-234). Accenti pirandelliani emergono, inoltre, nell’articolo, quasi una novella, Berlese e la mosca (Berlese e la mosca, San Vincenzo 28 agosto 1923, pp. 267-273): Ugo soggiorna in un paese nella maremma pisana, non trova mosche. Il merito è del professore Antonio Berlese, capo della stazione fiorentina d’entomologia agraria. Nella strana intervista, il docente pronuncia un bizzarro discorso sui pregi degli insetti rispetto agli uomini: “Vuole davvero fondare l’amore tra gli uomini? Caro signore, ne metta uno per chilometro quadrato: allora forse quell’uno amerà il suo prossimo” (p. 271). L’incontro provoca allo scrittore sonni agitati fra ogni tipo di mostruosi insetti. Commenta: “Mi sveglio, salto giù dal letto. E mi metto a scrivere per liberarmi dall’incubo” (p. 273). Ancora pirandelliane ‘maschere nude’ è il pubblico che assiste allo spettacolo dei burattini di Podrecca (I burattini di Podrecca, Parigi 17 febbraio 1929, pp. 274-280): “Il pubblico applaude, grida, s’alza in piedi, entusiasta. Diresti che dal cuore soddisfatto gli salga alle labbra questa speranza: - Così semplice e abile e ilare sia chi lassù maneggia le fila del nostro destino, - ed è l’embrione di una preghiera” (p. 280). Il segreto, dunque, della produzione giornalistica dello scrittore in questa succosa antologia? Capire che non c’è visione senza emozione, descrizione senza sentimento, ricordo senza malinconia, colore senza suoni, odori, gesti. Troppo riduttivo, allora, ci appare troppo ingiusta la sistematica damnatio memoriae nei confronti del personaggio. A mente serena, lontana da pregiudizi ideologici e politici, la pagina di Ojetti, citando il poeta latino Marziale, “ha il sapore dell’umanità” (Homo pagina nostra sapit). Per saperne di più - UGO OJETTI, Cose viste. Un’antologia, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2002.
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