CULTURA - A cura di Paola Bonfadini

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In fuga da se stessi:
il De tranquillitate animi di Lucio Anneo Seneca


Viviamo una vita inautentica.
Gli impegni ci avvolgono e ci divorano.
Abbiamo paura a stare in silenzio soli con noi stessi in una stanza.
Impegnati in ogni genere di attività, siamo in fuga costantemente dalle nostre paure e dalle nostre insicurezze. Stiamo con gli altri, ricopriamo cariche pubbliche, lavoriamo senza sosta per evitare, in realtà, l’ineludibile analisi interiore. Mettere a nudo l’animo significa, infatti, porre in evidenza la nostra vulnerabilità, le inquietudini, la consapevolezza  della morte, la caducità di ogni cosa.
Che fare? Come affrontare il male di vivere, la malattia morale?
Tali sono gli interrogativi che si pone, in un attualissimo ed illuminante dialogo, Lucio Anneo Seneca, filosofo e uomo politico latino, nato a Cordoba in Spagna intorno al 2/3 a.C. e morto suicida in seguito alla congiura antineroniana dei Pisoni nel 65 d.C. Lo studioso, uomo di potere e di cultura alla corte corrotta di Claudio e precettore di Nerone, figlio di Agrippina, per cinque anni, affronta il fallimento formativo del giovane “princeps”, divenuto un folle despota. All’intellettuale spagnolo non rimane che rifugiarsi nella quiete della vita appartata, dedicandosi agli studi e componendo i testi più profondi, quasi una sorta di bilancio esistenziale dell’esperienza accumulata.
La tradizione medioevale raggruppa dodici Dialoghi, interessanti da un punto di vista espressivo oltre che contenutistico.
Lo stoicismo fortemente etico latino si propone quale cura per una società allo sbando, preda dell’angoscia e dell’ambizione, non capace di formulare un’identità esemplare e costruttiva di sé.
Il De tranquillitate animi (“Sulla tranquillità dell’animo”, LUCIO ANNEO SENECA, De tranquillitate animi, in Dialogorum Liber IX, Mondadori, traduzione di GIOVANNI VANSINO, Milano 1990), quindi, invita Anneo Sereno, dedicatario del lavoro, a riflettere sulla sofferenza. Il personaggio si sente malato, ma non riesce a capire la causa del morbo: “nec aegroto nec valeo”, “né sono malato né sono in buona salute.” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 1, 2, pp. 220-221) . Le cariche pubbliche, gli affetti familiari, il prestigio, le convenzioni della rigida società romana trasformano tutti noi in marionette senza identità: “ne singula diutius persequar, in omnibus rebus haec me sequitur bonae mentis infirmitas.”, “Per non tenere dietro più a lungo alle singole manifestazioni, mi segue in ogni cosa questa instabilità nella retta volontà.” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 1, 15, pp. 226-227).
Secoli prima di Pirandello, Seneca tratteggia un individuo perduto, alla deriva assiologica e relazionale: “ut vera tibi similitudine id, de quo queror, exprimam, non tempestate vexor sed nausea. Detrahe ergo quicquid hoc est mali et succurre in conspectu terrarum laboranti.”, “per rappresentarti con un paragone concreto ciò di cui mi lamento, non sono sballottato dalla tempesta, ma dalla nausea; strappa dunque via tutto questo male, qualunque sia, e soccorri me, che soffro in vista della terra.”, LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 1, 17, pp. 226-227).
Gli esseri umani sono “occupati” in “supervacuis laboribus”, nella “circurcidenda concursatio” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 12, 2, pp. 260-261), con la speranza di trovare all’esterno le risposte che dentro di sé non hanno o non vogliono trovare. Nasce un fastidio, una noia, capaci di acuire e cristallizzare la disperazione.
L’autore, allora, affronta il tema con grande comprensione ed acutezza.
Egli non è, come i saggi storici greci, staccato dall’umanità dolente. Soffre e ha sofferto. È stato egli stesso un “occupatus”. Conosce benissimo le passioni e le ambizioni che tormentano gli oscuri labirinti della coscienza: “Hinc illud est taedium et displicentia sui et nusquam residentis animi valutatio et otii sui tristis atque aegra patientia, utique ubi causas fateri pudet et tormenta introrsus egit verecundia, in augusto inclusae cupiditates sine exitu se ipsae strangulant; inde maeror marcorque et ille fluctus mentis incertae, quam spes inchoatae suspensam habeant, deploratae tristem; inde ille adfctus otium suum detestantium querentiumque nihil ipsos habere, quod agant et alienis incrementis inimicissima invidia: alit enim livorem infelix inertia et omnes destrui cupiunt, quia se non potuere provehere.”, “Di qui nasce quella noia e scontentezza di sé, quel rivoltarsi nell’animo, che non si placa in alcun luogo, quella sopportazione malcontenta e malata del proprio ozio, soprattutto quando ci si vergogna di confessarne le cause ed il pudore ha spinto all’interno i tormenti: i desideri chiusi allo stretto e senza via d’uscita, da soli si strangolano. Di qui nasce la tristezza ed il torpore e quell’ondeggiamento di una volontà incerta, che le speranze incominciate tengono in bilico, quelle fallite nell’afflizione; di qui la disposizione d’animo di coloro che maledicono la loro vita appartata e che si lamentano di non aver personalmente niente da fare, e l’invidia ostilissima ai progressi altrui nella carriera: alimenta infatti il livore un’inerzia senza frutti, e desiderano che tutti crollino, perché loro non furono in grado di fare carriera.” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 2, 10, pp. 230-231).
Proprio la sapienza dei mali spinge lo scrittore a proporre alcuni rimedi per raggiungere la tanto sospirata tranquillità: “ergo quaerimus, quomodo animus semper aequali secundoque cursu eat propitiusque sibi sit et sua laetus aspiciat et hoc gaudium non interrumpat, sed placido statu maneat nec adtollens se unquam nec deprimens: id tranquillitas erit.”, “dunque, noi cerchiamo in che modo, con un corso uniforme e senza ostacoli, l’animo possa procedere, sia benevolo con se stesso, veda con le letizia le cose sue, e questa gioia non la interrompa, ma rimanga in uno stato placido, non elevandosi né deprimendosi mai: questo sarà la tranquillità.” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 2, 4, pp. 228-229). E la virtù si trasforma nel fine fondamentale: “Numquam enim quamvis obscura virtus latet, sed mittit sui signa: quisquis dignus fuerit, vestigis illam colliget.”, “Mai, per quanto oscura sia, la virtù resta nascosta, ma manda segnali di sé: chiunque ne sarà degno, la rintraccerà dalle orme” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 3, 6, pp. 236-237).
Ad esempio, è opportuno accettare le pause che l’esistenza impone e dispone: “sed illo quod ultimum venit, ut fidem tibi habeas et recta ire te via credas.”, “ma c’è bisogno di quel rimedio che viene come ultimo, avere fiducia in te e credere di andare per la retta via.” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 2, 2, pp. 226-229); “itaque optimum est miscere otium rebus”, “pertanto, la cosa di gran lunga migliore è mescolare l’inazione all’azione” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 4, 8, pp. 240-241).
Non sono, del resto, la carriera professionale o il successo economico in grado di portare serenità. Risulta, inoltre, indispensabile arrivare all’equilibrio delle passioni, che si riverbera nelle attività. Ecco la soluzione: armonia, frugalità, sobrietà (“Adsuescamus a nobis removere pompas et usus rerum non ornamenta metiri.”, “Abituiamoci ad allontanare da noi la pompa e a misurare l’utilità pratica delle cose, non le loro bardature.”, LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 9, 1, pp. 248-249), buon senso (“Adhibe rationem difficultatibus”, “Usa la ragione per le difficoltà”, LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 10, 4, pp. 254-255), consapevolezza dei propri limiti, poiché “Cuivis potest accidere quod cuiquam potest.”, “A chiunque può capitare ciò che può capitare a qualcuno” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 11, 8, pp. 258-259).
Per ottenere cosa, infine? La pace interiore: “utique animus ab omnibus externis in se revocandus est: sibi confidat, se gaudeat, sua suspiciat, recedat quantum potest ab alienis et se sibi adplicet, damna non sentiat, etiam adversa benigne interpretetur.”, “soprattutto, l’animo da tutte le cose esterne deve essere richiamato in sé; confidi in sé, goda in sé, ammiri ciò che è suo, si allontani quanto gli è possibile da ciò che è estraneo e si applichi a sé stesso, non percepisca le perdite, anche ciò che è contrario lo interpreti con generosità.” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 14, 2, pp. 264-265). 
La pace interiore può lenire e fortificare noi tutti: “danda est animis remissio: meliores acriosque requieti surgent.”, “bisogna concedere agli animi una tregua: migliori e più pronti si alezeranno, una volta che si saranno riposati.” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 17, 5, pp. 274-275); “Habes, Serene carissime, quae possint tranquillitatem tueri, quae restituere, quae subrepentibus vitiis resistant; illud tamen scito, nihil horum satis esse validum rem imbecillam servantibus, nisi intenta et adsidua cura circumit animum labentem.”, “Hai i precetti, o carissimo sereno, che sono in grado di custodire la tranquillità, di ristabilirla, di resistere ai vizi che si avvicinano strisciando: sappi tuttavia per certo che nessuno di questi precetti è sufficientemente forte per chi faccia la guardia ad una cosa debole, se intenta ed assidua la cura non cinge tutto intorno l’animo vacillante.” (LUCIO ANNEO SENECA, op. cit. 1990, II, 17, 12, pp. 276-277).

Per saperne di più

LUCIO ANNEO SENECA De tranquillitate animi, in Dialogorum Liber IX, Mondadori, traduzione di GIOVANNI VANSINO, Milano 1990, II, pp. 220-277.