GABRIELE D’ANNUNZIO E I FIGLI
di Attilio Mazza
Lo squarcio di vita familiare di Gabriele d’Annunzio emerge dall’ultimo impegno di Franco Di Tizio, medico e studioso abruzzese tra i più fecondi del poeta, autore di una vera e propria collana di carteggi dannunziani (ben 21 titoli!), di cui l’ultimo volume è La tormentata vita di Gabriellino d’Annunzio nel carteggio inedito con il padre, edito da Ianieri di Pescara (478 pagine, € 38). L’opera è arricchita, al pari delle altre, dall’apparato illustrativo, dalla bibliografia e dagli indici.
Spontaneo l’interrogativo: Gabriele d’Annunzio fu un buon padre? Sembra proprio di no. Rapporti difficili ebbe con il primogenito Mario (1884 - 1964) anche per lo scarso impegno da lui dimostrato negli studi e poi, più avanti nella vita – quando già sedeva in Parlamento –, a causa della pretesa eredità dei beni paterni. Attore di scarso successo fu il secondogenito Gabriellino (1886 - 1945), che pur gli fu assai vicino in vari a momenti, al quale rese difficile l’esistenza condizionandolo addirittura nelle scelte sentimentali (da che pulpito!). Più autonomo fu il terzogenito Veniero (1887 – 1945) nei confronti del quale il padre ebbe particolare stima: dopo la laurea in ingegneria e il servizio militare visse per lo più negli Stati Uniti. Ottenne anche il brevetto di pilota d’aereo, patente che il genitore non ebbe mai.
Vero affetto Gabriele d’Annunzio nutrì probabilmente solo per la figlia naturale, Renata Gravina o Anguissola, dal cognome del marito della madre (1893 – 1976), la Sirenetta, nata dopo aver abbandonato per sempre il tetto coniugale attorno al 1892 quando incontrò la principessa siciliana Maria Gravina Cruyllas de Ramacca con la quale ebbe una relazione durata cinque anni e da cui nacque appunto Renata.
Il nuovo lavoro di Franco Di Tizio offre molti piani di lettura trasversali, oltre, naturalmente, all’esauriente biografia del secondogenito del poeta, ricostruita non solamente – anche se soprattutto – attraverso il carteggio con l’illustre genitore. Un buon esempio è offerto dall’approfondimento del rapporto di d’Annunzio con la moglie, Maria Hardouin dei duchi di Gallese (1864 – 1954), sposata a Roma, il 28 luglio 1883 dopo la fuga a Firenze in seguito al “peccato di maggio”, e dalla quale si separò consensualmente il 18 maggio 1899, mantenendo tuttavia buoni rapporti non solo formali, quasi affettuosi negli ultimi anni, più volte ospitata a Villa Mirabella del Vittoriale. Fu lei a crescere i tre figli – con il contributo economico del marito –, fra Roma e Parigi. Non essendo intervenuto il divorzio, ma solo la separazione, le spettò il titolo di Principessa di Montenevoso e alla scomparsa del marito si trasferì definitivamente a Villa Mirabella.
Alla moglie di d’Annunzio Franco Di Tizio dedica quasi una monografia. Ed altrettanto esaurienti sono le notizie sui fratelli di Gabriellino e sulla sorellastra Renata. Tutto ciò contribuisce ad offrire un quadro preciso della situazione familiare del poeta nell’intreccio di rapporti non sempre facili, preso com’era fra creazioni letterarie, avventure amorose, occupazioni mondane, affannosa ricerca di denaro, impegni politici e militari. Senza tener conto dell’«esilio» in Francia per sfuggire agli «usurieri» (usurai) dopo la vita di sperpero alla Capponcina e quindi l’avventura eroica della Grande Guerra e l’infelice impresa di Fiume. Infine gli assilli per costruire a Gardone Riviera il reliquiario delle proprie memorie: il Vittoriale degli Italiani «testamento d’anima e di pietra, immune per sempre da ogni manomissione e da ogni intrusione», comprese quelle dei propri eredi.
Franco Di Tizio, disegna quindi, assieme all’esistenza di Gabriellino, anche le molte vite dell’immaginifico genitore, grandissimo poeta e geniale promotore di se stesso, offrendo non poche notizie inedite svelate attraverso il carteggio con il secondogenito.
Gabriellino, scrive nella presentazione Umberto Russo dell’Università di Chieti, è forse tra i figli, «la figura più interessante». Gli «volle dare il proprio nome, con l’intimo auspicio di forgiarsi un erede degno di lui». Aspettativa delusa forse proprio per aver intrapreso una carriera da cui il padre avrebbe potuto trarne vantaggio. Dopo aver frequentato la scuola teatrale di Luigi Rasi interpretò, infatti, alcune opere del celebre genitore, dedicandosi al cinema, sia come interprete, in un ruolo della tragedia paterna La Nave, sia come regista (con Georg Jacoby) di Quo vadis che diede fama a Elena Sangro nelle vesti di Poppea, una delle tante amanti del poeta. Terminò tristemente la propria esistenza come modesto impiegato della Società degli Autori.
Il carteggio rivela il rapporto di amore-odio di Gabriellino con l’insuperabile padre al quale fu sempre vicino, assumendo varie mansioni (in particolare nel periodo bellico); una devozione mai sconfessata, nemmeno nei momenti più dolorosi, quando il genitore fece richiudere in manicomio la donna assai amata, Maria Brizi che si firmò Canevari anche dopo il matrimonio fallito. Fu un amore contrastato dalla stessa madre duchessa di Gallese che chiese soccorso al potente marito il quale a sua volta farà addirittura intervenire il capo dello Stato Mussolini. Nonostante i contrasti familiari, Gabriellino sposò a Roma Maria Brizzi l’11 febbraio 1932, probabilmente dopo la morte del primo marito, Silvio Canevari.
Di Tizio fa piena luce sulla triste e complessa storia in cui entra anche il nome di un altro letterato, Massimo Bontempelli, pure amante della Canevari. Lo studioso pescarese nel nuovo volume mette a punto la versione data dal noto giornalista e scrittore Orio Vergani – che nel periodo dannunziano ebbe casa anche a Gardone Sopra in Via Dosso – il quale scrisse che Gabriellino si era ammalato di una malattia misteriosa. La madre accusò la Canevari di averlo avvelenato, di avergli dato l’abitudine delle droghe. «Gabriele da Gardone, lanciò precise accuse di veneficio che arrivarono sul tavolo di Mussolini, chiedendo l’arresto della nuora mentre il figlio era, senza conoscenza, in clinica. La disgraziata fu arrestata e imprigionata fra le prostitute delle Mantellate».
Quando Gabriellino recuperò la salute salvò l’infelice dal carcere e riuscì a portarsela in casa «a morire di consunzione», nel sonno: era il 21 aprile 1934. La donna fu accusata ingiustamente. Gabriellino perdonò il padre col quale mantenne un buon rapporto anche dopo la tragedia, informa Di Tizio smentendo una diffusa vulgata. Rimase però solo e «invecchiò prima del tempo». Morì a Roma nello stesso anno in cui il fratello Veniero cessò di vivere a New York. Era il 1945.