UN DRAGOMANNO COME GARANTE
Il dragomanno non era un personaggio da fiaba. Era il nome di colui che a Venezia sovrintendeva alle transazioni commerciali coi turchi. Aveva, dunque, un ruolo ufficiale e il nome deriva dall’arabo targama, tradurre. Suo compito era di garantire la correttezza delle contrattazioni. Era d’obbligo fosse presente alla stipulazione degli accordi commerciali per evitare che i sudditi ottomani fossero ingannati e potessero poi sorgere contestazioni. Così aveva stabilito il Consiglio dei Dieci nel 1534 riconoscendo «al dragomanno il compenso di un terzo della somma consegnata al sensale».
Il primo ad ottenere tale incarico fu Girolamo Civran, suddito veneto. «Aveva passato quattordici anni prigioniero dei turchi, conosceva sia il greco sia il turco e fin dal 1515 era intervenuto come dragomanno per gli inviati ottomani ricevuti a Palazzo Ducale. Oltre a tradurre missive e a fungere da intermediario quando giungevano ambasciatori del sultano, Civran era diventato il principale responsabile degli scambi commerciali attuati a Venezia».
Ai traffici in laguna con il mondo musulmano è dedicato un ampio capitolo del saggio Venezia porta d’Oriente(Il Mulino), di Maria Pia Pedani, docente Ca’ Foscari di storia dell’impero ottomano. E’ un libro quanto mai attuale e che documenta il corretto rapporto con il mondo ottomano, diventato poi quasi impossibile dall’estate del 1683 quando l’esercito turco pose addirittura l’assedio a Vienna, uno dei punti nodali della storia europea indagato da un altro saggio edito dal Mulino, intitolato appunto L’assedio di Vienna, del prof. John Stoye, docente emerito del Magdalen College di Oxford.
Il patrono san Marco – Già nel terzo decennio del IX secolo le navi veneziane si erano spinte fino a toccare i porti musulmani del Nordafrica. E da Alessandria d’Egitto la leggenda vuole che Bono e Rustico, due tribuni e mercanti, siano tornati in laguna il 31 gennaio dell’828 con le preziose reliquie dell'evangelista Marco, grazie a un ingegnoso stratagemma. Fu quella la prima “importazione”, evento memorabile che contribuì anche a una progressiva identificazione di Venezia come “nuova Alessandria”. Poi si susseguirono altre vicende sino al 1261 quando i veneziani, costretti ad abbandonare la piazza di Costantinopoli, cercarono mercati più accoglienti e adottarono il Leone di San Marco facendolo assurgere a simbolo dello Stato, esibito sulle stesse bandiere delle navi mercantili.
Ma come erano trattati i musulmani a Venezia in tempi antichi? Quando il loro numero aumentò notevolmente, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, si pensò di riservare loro un’isola all’interno del tessuto urbano, San Giacomo dell’Orio, facilmente rinserrabile durante la notte. Palazzo Palmieri divenne così un esempio emblematico della cosiddetta «casa fondaco veneziana», o come si diceva un tempo, «casa di stazio con magazzini», essendo gli ospiti soprattutto mercanti. Nel 1621 il nuovo fondaco venne inaugurato dopo i restauri e adattato per ospitarvi sino a duecento persone. Vi erano ovviamente magazzini, bagni ed anche una piccola moschea, o meglio una sala di preghiera, sulle cui pareti vennero tracciati versetti del Corano, di cui sono visibili ancora alcuni frammenti.
Spirito di tolleranza – Fu noto come Fondaco dei Turchi o dei Mori o degli Arabi e l’intenzione fu quella di concentrarvi tutte le residenze dei musulmani presenti a Venezia. Ma non fu possibile. Molti si rifiutarono e continuano ad abitare altre zone preferite. La vicenda, scrive
la Pedani
«fa comprendere come la presenza di musulmani a Venezia, e il loro mescolarsi alla folla cittadina, non venissero considerati un fatto impossibile né eccezionale».
Passata l’epoca napoleonica, quando il Fondaco dei Turchi era ormai diroccato, dopo tanti anni d’incuria e di abbandono, vi abitava ancora un ultimo musulmano: Sadullah Idrisi, un uomo di circa cinquant’anni che si rifiutò di abbandonarlo, invocando l’autorità del sultano.
La storia di Fondaco è emblematica: non poté essere smantellato per trasformarlo in cava con materiale a basso costo per le nuove costruzioni. Venne acquistato dal Comune che lo trasformò in Museo cittadino, quale rimane ancora oggi.
Dominatrice del mare – Altra curiosa vicenda è quella di Venezia «Signora dell’Adriatico». Il diritto islamico considerava possibile tale sovranità. Le leggi europee, al contrario, ritenevano l’acqua un bene comune rifacendosi al diritto romano e pertanto giudicavano impossibile «regnare sulle onde del mare». Venezia non accettò l’antico ius commune e «affermò con forza il proprio diritto a essere l’unica signora dell’Adriatico».
Anche gli ottomani, tuttavia, scoprirono successivamente l’importanza dell’Adriatico e contrastarono il dominio della Serenissima. Vi fu una contesa allorché i veneziani pretesero in anticipo il dazio delle navi provenienti dai Balcani o dall’Anatolia e che facevano capo a Ragusa.
A complicare la situazione entrarono in scena anche i pirati, sia cristiani sia musulmani che, con l’aumentare dei commerci in Adriatico, intercettarono sempre più le imbarcazioni commerciali nei primi decenni del Cinquecento. Furono così costruite torri di avvistamento lungo le coste italiane per controllare chi arrivava dal mare, dare l’allarme e allertare le popolazioni di mettersi in salvo.
Per contrastare il commercio degli ottomani nell'area, e aumentare i dissidi tra Venezia e
la Porta
, vi furono a metà del secolo anche pirati assai particolari: gli uscocchi, sudditi e dipendenti, per quanto non ufficiali, degli Asburgo. La loro attività aveva lo scopo di creare problemi alla Serenissima. «In quanto signora delle acque adriatiche
la Repubblica
avrebbe dovuto infatti controllarne anche la sicurezza e, quando ciò non avveniva, era lei a esserne ritenuta responsabile dal sultano».
All'inizio, rispettosi della giurisdizione veneziana sulle acque adriatiche, gli ottomani usavano domandare il supporto della marina veneta in caso di difficoltà. Poi Costantinopoli sospettò segrete trame tra i veneziani e gli uscocchi e chiese alla Repubblica di rifondere ogni danno da loro causato.
A cura di Attilio Mazza