«Sono stati scritti tantissimi libri sull’esser giovani, così come su tutto ciò che ha a che fare con le variegate esperienze che riguardano la procreazione, ma nulla o quasi sul passare oltre. Dal momento che io sono piuttosto avanti in questo processo, mi sono detta: ‘Perché non provarci’. E così ci ho provato».
Superati brillantemente i 90 anni, Diana Athill si guarda attorno e decide di raccontare, senza falsi pudori, senza veli, senza paure, non tanto cosa c’è stato prima, quanto cosa succede ora. L’autrice è un mostro sacro dell’editoria inglese. Per cinquant’anni ha lavorato ai massimi livelli del settore editoriale, a stretto contatto con autori come Philip Roth, John Updike, Mordecai Richler, Simone de Beauvoir.
Il suo libro, annunciato in uscita dalla Bur-Rizzoli per il mese di maggio, è un memoir gioioso e ironico, percorso da un vitalismo inarrestabile, che sa guardare al passato, al presente e al futuro con sorprendente leggerezza. Cosa vuol dire esser “vecchi”? Per esempio combattere contro una serie di malesseri e disfunzioni del corpo. Ma anche essere finalmente liberi da pregiudizi, vizi, schiavitù. Il sesso? Ha smesso intorno ai 70 (e scusate se è poco), e pensava che le sarebbe mancato di più, ma in fondo è come quando si smette di bere vino: se si trova un buon surrogato, non è poi così male come si pensava all’inizio.
Spensierato, ironico, franco, questo libro – un sorprendente caso editoriale –, affronta l’ultimo grande tabù dei nostri tempi. E ne esce gloriosamente vincitore.
A cura di Attilio Mazza