Fu soddisfatto Gabriele d’Annunzio della propria vita inimitabile? Non sembra proprio. Nell’ultimo tempo della vita confidò alle sue carte segrete: «Questo ferale taedium vitae mi viene dalla necessità di sottrarmi al fastidio – che oggi è quasi l’orrore – d’essere stato e di essere Gabriele d’Annunzio». E ancora: «Vecchio guercio tentennone, io resterò dunque senza fine sospeso al mio nervo ottico, e senza denti riderò del vanesio che volle non soltanto divenire quel che era […] Pur essendo così vasto e sempre teso in tanti diversi sforzi, io abomino la strettezza del mio vivere, odio il mio vivere chiamato inimitabile».
I due passi possono essere utili per interpretare il saggio di Mirko Menna – dottore di ricerca in Lingua e Letteratura delle regioni d’Italia –, intitolato Vite vissute di Gabriele d’Annunzio. Mitografie e Divismo, appena edito da Carabba nella collana «
La Biblioteca
del particolare», diretta da Gianni Oliva.
La vitalità di Gabriele d’Annunzio è sicuramente sconcertante: giornalista, letterato di successo, esteta raffinatissimo, protagonista della vita pubblica, arbitro d’eleganza in Italia e in Francia negli ultimi bagliori della Belle époque, personaggio del bel mondo conteso dai salotti più esclusivi, seduttore in grado di far innamorare un gran numero di donne della nobiltà e della borghesia, acclamato e mitico eroe della Grande Guerra – durante la quale seppe compiere imprese memorabili, sfuggendo sempre alla morte che ghermì, invece, alcuni dei suoi commilitoni più cari –, comandante di Fiume e poi, al Vittoriale, “eremita” assai temuto da Mussolini nei primi anni della sua presa del potere e successivamente tollerato, gratificato e assecondato in ogni sua richiesta pur che stesse lontano dall’agone politico.
Ma forse la sua stessa dichiarazione di «vita inimitabile», va ridimensionata non solo alla luce della malinconia che gli tenne compagnia in tutta l’esistenza – sagacemente documentata da Gianni Oliva –, al punto da diventare «taedium vitae», negli ultimi anni del Vittoriale, ma anche considerando che del suo vero essere, della sua complessa natura – genio della poesia lirica ed epica, dotato d’inatteso umorismo e d’impensabile autoironia – poco si conosce, nonostante le pagine e pagine autobiografiche, perché sin dagli anni giovanili non volle «essere decifrato».
Un buon esempio delle contraddizioni del «divino» Gabriele può essere considerato il suo atteggiamento nei confronti dei fotografi che – come documenta Mirko Menna nella Conclusione del suo libro – scacciò più volte dichiarando il suo «ribrezzo» per la macchina fotografica! Eppure sulla spiaggia di Francavilla al Mare si fece fotografare addirittura nudo dall’amico Michetti. E durante il periodo bellico distribuì a chissà quanti soldati la propria fotografia, conservata da molti nel portafogli come un santino. E ancora negli anni del Vittoriale ordinò all’architetto Gian Carlo Maroni di far stampare un buon numero di copie della propria «imagine», da distribuire ad amici e ad estimatori.
Ecco lo sfuggente e vero Gabriele d’Annunzio. Le sezioni antologiche del saggio di Mirko Menna confermano l’assunto. Il libro, diviso in sette parti, ripercorre tutta l’esistenza e le molteplici interpretazioni del personaggio per dare risposta ad alcuni interrogativi: Come si diventa un divo? Come si passa alla consacrazione del mito? Quale immagine e quali deformazioni furono trasmesse su di lui da critici, giornalisti, scrittori «burocratici» della letteratura (per usare il termine di Benedetto Croce)? Frammenti su frammenti, quindi, per «offrire il più ampio spettro di possibilità», per ricomporre «l’infinito puzzle delle memorie dannunziane».
A cura di Attilio Mazza