Medico e dannunzista fra i più stimati, Franco Di Tizio ha dato alle stampe il suo ventesimo volume accolto nella collana che gli ha dedicato l’editore Ianieri di Pescara, riservata ai suoi studi su Gabriele d’Annunzio. Il grande poeta suo concittadino non cessa di stupire e di suscitare l’interesse degli studiosi e non solo per la vita davvero inimitabile di letterato, politico, protagonista del bel mondo, arbitro della moda, tombeur de femme, eroe della Grande Guerra e di Fiume.
Il nuovo lavoro di Franco di Tizio s’intitola «
La Santa Fabbrica
del Vittoriale nel carteggio inedito d’Annunzio Maroni». E’ un’opera monumentale di ben 720 pagine, riccamente illustrata anche con immagini inedite o poco note. Il carteggio di quasi duemila missive – di cui ottocento di Maroni e milleduecento di d’Annunzio, scritte dal 1921 al 1938 –, è preceduto dalla nota introduttiva in cui l’autore traccia la biografia dell’architetto Gian Carlo Maroni, la vicenda delle donazioni degli autografi e i criteri con cui li ha pubblicati, arricchendoli di note che consentono di ripercorrere il rapporto non sempre facile fra il poeta e il progettista e direttore dei lavori della Santa Fabbrica del Vittoriale.
L’intesa fu davvero difficile soprattutto nei primi anni, come si deduce anche dal messaggio che d’Annunzio scrisse a Maroni il 15 gennaio 1925: «Caro Gian Carlo, anche tu leggi le mie lettere e ascolti le mie parole con disattenzione! Come puoi aver compreso di dover murare anche la divina finestra dell’Oratorio, d'onde entra una luce d'oro quasi paradisiaca????!!!!!! Ma se ti avevo perfino vietato – e ti vieto – di abbassare un poco il vano?! Ho scritto e riscritto, detto e ridetto, che voglio murate le due finestre già cieche – quelle verso il giardino […] Spero che ci potremo intendere, se bene tu sia di Riva ed io di Pescara».
Gian Carlo Maroni, di profondi sentimenti italiani, non era nato a Riva – come molti credono, e come probabilmente riteneva anche d’Annunzio –, ma ad Arco, all’epoca lembo di terra austriaca dell’entroterra rivano, dove vide la luce nel 1893. La famiglia si trasferì presto a Riva: il padre vi gestì un caffè-pasticceria e Gian Carlo frequentò le elementari e trascorse la giovinezza. Divenne così, di fatto, la sua città alla quale rimase legato per l’intera esistenza, pur vivendo a Gardone Riviera.
Il brano del messaggio citato è di particolare interesse per varie ragioni. Nel 1925, infatti, Maroni era già al Vittoriale da circa un lustro. Aveva conosciuto d’Annunzio a Fiume, ma l’incontro decisivo era avvenuto a Gardone, a fine giugno del 1921, grazie al legionario trentino Giuseppe Piffer, aiutante di campo del comandante nel periodo fiumano. Gian Carlo in quel ’21 aveva 28 anni e da tre aveva conseguito il titolo di «Professore di disegno architettonico» all’Accademia di Brera. Era stato costretto a interrompere gli studi a causa della Grande Guerra, volontario nel Sesto Alpini, subito in prima linea e gravemente ferito il 18 ottobre 1916 nel combattimento del Monte Roite, insignito di medaglia d'argento al valor militare per il «mirabile esempio di coraggio e fermezza ai suoi inferiori incitandoli a persistere nell'azione».
Fra il poeta e l'architetto si stabilì, probabilmente dall'inizio, una simpatia per le molte affinità spirituali – in primo luogo il patriottismo e la dimensione eroica –, pur nella profonda diversità di carattere. La devozione di Maroni a d'Annunzio, nonostante le incomprensioni, diventerà totale, come si ricava dal carteggio appena pubblicato. Fu un rapporto singolare, gratuito, sotto un certo aspetto unico, forse d'altre epoche, e che si trasformò in vera amicizia. Diventerà progettista, segretario, confidente del comandante (così il poeta volle essere chiamato a Gardone); poi Soprintendente, continuatore e difensore del Vittoriale.
D’Annunzio gli diede subito piena fiducia e lo sentì presto assai legato alla sua persona, addirittura protettore nell’ultimo tempo della vita, ed anche «Ermete psicopompo», introducendolo al mondo misterioso dell’aldilà, grazie alle sue facoltà medianiche. Una dipendenza che diventerà pure psicologica. L'architetto, forse involontariamente, riuscì a fargli mutare persino i gusti negli ultimissimi anni dell’esistenza dominati dall'incubo della morte.
Le attestazioni di affetto di Gabriele d'Annunzio verso il progettista che gli fu vicino per diciassette anni, pronto ad assecondare ogni suo desiderio, non si contano. Gli diede quasi subito del tu e lo chiamò “Fratelmo” e “fratello” (il tono confidenziale, nelle missive del Maroni, compare solamente nel giugno del 1936). C’é una lettera proprio dell'agosto di quell’anno che ci sembra illumini, in modo esauriente, il significato della loro amicizia: «Mio caro Gian Carlo, nello smarrimento della coscienza universale, di contro ad avversioni e miserie senza numero, noi abbiamo meritato – forse per aver operato e tanto patito – un privilegio non pari ad alcun altro. Siamo 'due uomini' inviati l'un verso l'altro da un fato divino e umano. Esciti dalla fucina della guerra, ci siamo incontrati e riconosciuti per non separarci mai più. Quando ero per scriverti, è scoppiato un temporale squassando il mio scheletro e moltiplicando di vertebra in vertebra, fra costa e costa, i baleni. Subito ho pensato che nel pericolo ciascuno di noi due – unanimi – non si tenderebbe se non per salvare l'altro. Che bella verità per elevare e per illuminare la fronte! Se puoi, vieni a parlarmi delle vie terrestri e di quelle celate (sic!)».
Scrisse il Maroni a un conoscente: «vuole saperlo perché ho dedicato la mia vita a d'Annunzio? Servivo d'Annunzio qui perché sentivo di servire
la Patria
». La sua esistenza fu una vera donazione: tutto sacrificò al poeta, anche la famiglia, rinunciando al matrimonio.
Il ricco carteggio, grazie anche all’esauriente apparato di note di Franco Di Tizio, consente di ricostruire passo passo il nascere del principato Vittoriale, con i nome di artigiani e di artisti che vi lavorarono, e soprattutto di capire come la sistemazione della Prioria, l’arredo scenografico, sia da attribuire esclusivamente a Gabriele d’Annunzio, specchio della sua concezione simbolista e del suo particolare gusto, mentre l’architettura monumentale sia assolutamente frutto dell’ingegno di Maroni il quale creò il suo capolavoro in una sorta di stile nazionalrazionalista. Un grande elogio ricevette da Marcello Piacentini che definì i suoi disegni «chiari, esatti, senza falsi effetti e senza approssimazioni, disegni di chi vede, al di là del foglio di carta, la realtà». E d'Annunzio, dal canto suo, lo chiamò «Magister de vivis lapidibus».
Franco Di Tizio, nell’ultima parte del volume, ricostruisce ciò che accadde nel dopoguerra dal 1945 sino a dopo la morte di Gian Carlo Maroni, avvenuta a Gardone il 2 gennaio 1952 (la sua salma riposa nell’arca sul Mausoleo), e la dispersione delle sue carte. Molte vicende resero amari i suoi ultimi anni in cui fu custode della memoria dannunziana e progettò il Mausoleo e il Teatro, il cui compimento non riuscì a vedere.
L’affetto di Gabriele d'Annunzio per Maroni si legge nella lettera del Capodanno 1936: «Caro caro Gian Carlo, passo nella sofferenza e nell'esosa tristezza questo primo giorno. Ma l'Orbo veggente ti dichiara felice il 1936: annus mirabilis. Santa Fabbrica compiuta. Come mi è dolce la tua assistenza! Forse il padre e la sorella sarebbero contenti di averti. Ti mando il sacramentale vino; e i parrozzi. Abbraccia per me il tuo fratello. Vivo il lugubre Capodanno fiumano. A domani. Ti abbraccio di gran cuore; e non mi sento ancora solo solo poiché tu mi sei accanto. Il tuo Gabriele».
Attilio Mazza