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Gian Paolo Barbetta, Francesco Maggio

«Nonprofit»

Il Mulino, collana “Farsi un’idea”, 134 pagine, € 8,80
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«Durante gli anni Novanta del secolo scorso, all'improvviso e inaspettatamente, un settore che produce beni e servizi dalle caratteristiche peculiari si è trovato al centro dell'attenzione dei ricercatori, dei politici, degli amministratori e della stessa opinione pubblica. Organizzazioni che si occupano di tossicodipendenti e di portatori di handicap, circoli sportivi e ricreativi, cooperative scolastiche di genitori, cliniche e ospedali di enti religiosi, associazioni ambientaliste, organizzazioni non governative che operano con i paesi in via di sviluppo, associazioni culturali e politiche, gruppi locali di volontariato, fondazioni che gestiscono musei, cooperative di inserimento lavorativo di ex carcerati, università non statali, fondazioni di erogazione e altro ancora sono diventati oggetto di un interesse senza precedenti. Si tratta di organizzazioni che, al di là delle profonde differenze che le connotano, sono accomunate da una caratteristica: non distribuiscono a soci o dipendenti gli eventuali profitti che derivano dalla gestione delle loro attività ma, al contrario, re-investono questi profitti per aumentare la quantità e migliorare la qualità dei servizi erogati. Sono quello che è stato chiamato – mutuando la terminologia americana – il settore nonprofit».
Con questo brano Gian Paolo Barbetta, docente di Politica economica nell'Università Cattolica di Milano, e Francesco Maggio, economista e giornalista del «Sole-24 Ore», aprono il primo capitolo del loro saggio «Nonprofit», pubblicato dal Mulino nella collana “Farsi un’idea”.
Le organizzazioni nonprofit attive negli ambiti più svariati sono più di 220.000, hanno un fatturato di più di 40 miliardi di euro, e occupano 700.000 persone. Questo «terzo settore», ha acquisito in Italia negli ultimi anni un peso sempre più rilevante.
Quanto al nome gli autori rilevano che già sul modo di scriverlo si confrontano opinioni differenti: «no profit», «non profit», «non-profit» o «nonprofit»? Mentre le prime due dizioni vanno rifiutate come semplici errori di inglese «tanto la terza che la quarta sono in uso negli Stati Uniti e assumono significati lievemente differenti. Il termine non-profit, con la negazione “non”, identifica il settore “in negativo”, differenziandolo dal resto dell'economia e della società semplicemente sulla base del mancato perseguimento dei profitti. Il termine nonprofit, al contrario, viene solitamente interpretato come definizione “in positivo”, che riconosce un settore che si distingue dal resto dell'economia per una pluralità di caratteri e che possiede caratteristiche peculiari e uniche, non condivise da altre organizzazioni». Ed è quest'ultimo termine che utilizzano gli autori.
Nel volume, ripresentato in una nuova edizione, gli autori forniscono un quadro che spazia dalle organizzazioni di volontariato alle cooperative sociali, dalle fondazioni alle Ong, dando conto anche delle ultime novità legislative, come le significative agevolazioni fiscali, la legge sull'impresa sociale o la riforma delle fondazioni di origine bancaria.


Attilio Mazza