«Quando nell'estate del 1876 gli Stati Uniti festeggiarono il loro primo secolo di vita, l'autocompiacimento fu il tema dominante nelle cerimonie ufficiali, e ce n'erano tutte le buone ragioni. Le celebrazioni più importanti si tennero a Filadelfia, la città che era stata il cuore della Rivoluzione americana, dove era stata firmata
la Dichiarazione
di indipendenza del 4 luglio 1776 e dove
la Convenzione
del 1787 aveva scritto la nuova Costituzione. In occasione del centenario della Dichiarazione la città ospitò
la Centennial Exposition
, la prima fiera mondiale che si tenne negli Stati Uniti, una grande vetrina che esaltava il progresso politico, culturale, sociale, industriale e tecnologico del paese, la sua prosperità. A cento anni dall'indipendenza, gli Stati Uniti avevano raggiunto i loro confini definitivi. Avevano comprato
la Louisiana
dalla Francia (1803), espropriato le nazioni indiane, strappato con la guerra il sudovest alla Repubblica del Messico (1848) e precisato con un trattato la frontiera con il Canada. Infine, con il recente acquisto dell'Alaska dalla Russia (1867) si erano spinti oltre il territorio continentale contiguo. La popolazione era cresciuta a livelli consistenti, quaranta milioni di abitanti secondo il censimento del 1870, grazie alla crescita demografica autoctona e a quella dell'immigrazione. L'economia capitalistica era dinamica e con una forte carica espansiva, aveva plasmato città e campagne, industria, commercio e agricoltura, e stava creando un mercato nazionale con una imponente rete di comunicazioni fatta di strade, canali, ferrovie, telegrafi; lo standard di vita che offriva agli americani sembrava superiore a quello degli europei».
Così Arnaldo Testi, docente di Storia degli Stati Uniti all'Università di Pisa, introduce il suo saggio «Il secolo degli Stati Uniti» pubblicato dal Mulino in un periodo in cui gli occhi di tutti sono puntati sul continente nordamericano in vista delle imminenti elezioni presidenziali. L'euforia per i successi conseguiti e le prospettive future non riuscì tuttavia a nascondere i problemi di quel momento. E fra tutti, ad esempio, quelli relativi all’abolizione della schiavitù avvenuta nel 1865, seguita, grazie alla tradizione repubblicano-rivoluzionaria del paese, da un esperimento di democrazia multirazziale che non ebbe riscontri altrove nelle Americhe tropicali e subtropicali, dove pure la schiavitù scomparve nel corso dell'Ottocento.
Il volume ricostruisce, dal 1876 ai giorni nostri, centotrenta anni di storia degli Stati Uniti. L'autore mette a fuoco temi come la «questione sociale» di fine Ottocento e le «guerre culturali» di fine Novecento, le spinte riformatrici liberal-progressiste e quelle conservatrici, l'ottimismo imperialista del 1898 e il timore del declino un secolo dopo, la presidenza imperiale e le tribolazioni della democrazia, le grandi guerre e le grandi depressioni, l'abbondanza e la povertà.
La narrazione intreccia brillantemente storia politica e storia economica, storia sociale e storia culturale per mettere in scena una pluralità di attori, spesso in conflitto tra loro: élite e movimenti di massa, partiti e lobbie, patrioti e ribelli, immigrati e afro-americani, donne e uomini. Emerge così l'immagine non dell’America a una dimensione dei miti e delle propagande, ma piuttosto quella degli Stati Uniti come paese plurale, nella loro complessità e nelle loro contraddizioni.
Attilio Mazza