|
|
||
A cura di Rosa Roselli Tutti i diritti riservati |
|||
ALBERTO BURRI, OPERE
(Mamiano di Traversatolo, Parma, Fondazione Magnani Rocca)
|
|
||
Alberto Burri (Città di Castello 1915 – Nizza 1995) si dedica alla pittura a partire dal 1944, dopo aver rinunciato ad esercitare l’arte medica. Le prime prove sono a carattere figurativo, ma ben presto l’artista è attirato dalla pittura astratta e, soprattutto, è mosso dal desiderio di utilizzare materiali nuovi. Il suo è un percorso graduale che nasce dal primo accostamento del materiale –detrito al colore, fino alla sostituzione completa, ossia catrame, pietra pomice, sacchi, ciottoli, impasti con vinavil, cementite, sabbia, legno, cellotex, carta, ferro, plastica vale a dire tutto quello che a lui sembrava, avere piena aderenza tra “ tono, materia e idea che nel colore sarebbe impossibile”. Nel 1950 Burri entra nel gruppo “Origine” con Ballocco, Perilli, Caporossi, Colla, Dorazio, Prampolini che lo influenza con i principi del Futurismo e del Dadaismo, mentre Burri porta nel gruppo le sue conoscenze biologiche, data la laurea in medicina. Questo modo di vedere le cose nasce, forse, dall’esperienza vissuta nel campo di concentramento di Hereford (Texas), dove l’allora ufficiale-medico Burri venne portato, da un campo di prigionia inglese in Africa (1944). Ad Hereford il Nostro conosce lo scrittore Giuseppe Berto, l’autore de “Il male oscuro”. Qui vengono realizzati i primi lavori di Burri, mentre Berto, suggestionato dal realismo di Sherwood Anderson e da Hemingway, scrive “Il cielo è rosso”. Scrisse Berto: “A trent’anni, Burri decise che non avrebbe fatto più il medico, perché si trovava in disaccordo con l’intera umanità. Così cominciò a dipingere. V’era, nella sua pittura, una forma che ci sconcertava e una sostanza che ci sfuggiva”. Burri rimase in Texas per diciotto mesi. Nel 1946 è di nuovo a Città di Castello per poi trasferirsi a Roma. Il passaggio dall’astrattismo è quindi la naturale conseguenza del suo nuovo modo di vedere il mondo. Espone le sue prime opere astratte alla Galleria
A. Burri, Cretto G 3, 1975
Nel 1952 Burri espone alla Biennale di Venezia lo “Strappo”e il “Rattoppo”, studi ed interpretazione della tecnica utilizzata nei “Sacchi”, poi arricchite nei “Grandi Sacchi” del 1953 –1954, dove si servirà di materiali di recupero, tele lacerate che, portate a New York nel 1955, verranno interpretate dal critico James J. Sweeney come “bellezza della ferita” e la materia sarà intesa come metafora della vita dell’uomo. Dal 1956 Burri utilizza il fuoco come elemento di distruzione e di creazione nelle “Combustioni”, per cui dai materiali bruciati nascono altre immagini che danno profondità all’opera stessa, come se l’artista frugasse nelle ulcerazioni della materia, ridotta a bruciature e a scorie dopo il passaggio del fuoco. Allo stesso modo l’artista , nel 1958, tratta il legno e il ferro, realizzando composizioni di lamiere arrugginite e saldate tra loro, con le quali Burri continua ad affermare il valore estetico della materia e la tenuta “pittorica” su due piani di elementi plastici e tridimensionali per natura. Il ciclo delle combustioni si conclude a metà degli Anni Sessanta per iniziare quello dei “Cretti” e, in anni più recenti, quello dei “Cellotex”. Le opere di Burri sono volte a rappresentare la ricerca di equilibrio; infatti la novità della sua arte consiste nel bilanciare materiali, colori e gesti così da ricavare un qualcosa di stabile e di nuovo da materiali distrutti.
A. Burri, Combustione, 1961
La mostra è visitabile fino al 2 Dicembre 2007
|
|||
Archivio |