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"Un Libro è un sogno
che vuole comunicare" |
Credo nella Mente dell'uomo e nel Mistero infinito. Credo nei Sogni e nel Futuro. Credo nei Libri. Non credo nell'impossibile. |
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LETTERE DELL'EDITORE
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Lettere (buone e cattive) dell'Editore
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Mi è capitato ultimamente di rileggere un breve saggio di qualche anno fa di un grande editore vivente e spontaneamente mi è venuto di confrontarne i contenuti con la realtà di questo momento. Quanto è sortito da questo confronto è l’impressione forte di incompatibilità, forse anche di incomunicabilità, tra la nobiltà della strategia editoriale sostenuta e i dati reali. E’ la stessa impressione che traggo in altre occasioni: quando, nell’ambiente accademico, incontro personaggi dediti totalitariamente da decenni allo studio delle varianti di una certa opera d’autore, quando, nell’ambito redazionale, mi imbatto in qualche raro individuo che è capace di trascorrere una giornata intera a discutere sull’idoneità del termine “attendere” (francesismo), o ancora quando leggo taluni (molto rari) commenti a scritti letterari in cui il rigore critico si trasforma in una macchina da demolizione, priva di criteri di misura quanto di distinguo e di rispetto. Ma questi ultimi aristocratici della letteratura, che pur giocano con rarissima passione, si rendono conto di essere giunti al punto del “fuori gioco”? Il gioco è, infatti, quello della realtà in cui si fa letteratura (e insegnamento della letteratura, ricerca letteraria, critica, redazione e editoria letterarie) e la realtà si può affrontare ma non ignorare. Mi piacciono la nobiltà degli intenti, la professionalità, la dedizione e la precisione, mi piacciono ancora di più perché di norma nella realtà attuale se ne reperiscono a stento le tracce e si affoga, al contrario, nella mediocrità mercantile, nell’approssimazione e nel disimpegno, fino a estremi davvero sconcertanti e talora paralizzanti, ma, se è difficile cambiare uno “zero” di questi ingredienti con un “dieci” - perché la realtà fa resistenza - è concepibile pretendere un “mille”? Non è che così facendo si scaverà ancora di più il baratro tra principi di riferimento e realtà e si incrementerà il processo di rigetto, rifiuto, allontanamento della società reale? Forse ad alcuni degli ultimi aristocratici questa conseguenza non importa, in quanto i loro reali interessi risiedono altrove. Ma a chi importa che la letteratura viva e sopravviva nella realtà interessa invece non finire “fuori gioco” e continuare a giocare, come editore anche al prezzo di rinunciare alle Collane-Ipertesto (che poi magari forniscono il pretesto per la celebre quanto sospetta etichetta: “Il libro proposto è fuori dal nostro programma editoriale”), all’Editoria alla Manuzio o alla figura dell’editore “in attesa di Kafka”, come docente anche al prezzo della rinuncia alla dittatura della filologia classica, come lettore e critico anche al prezzo della rinuncia a pretendere l’uso più corretto di “aspettare” al posto di “attendere” e al superbo criterio della perfezione, soggettivamente e astrattamente pensata. Fare l’editore, il docente di letteratura, il critico o il redattore è, a mio parere, prima che un’arte un servizio al Libro, è il Libro, infatti, e non i suoi mediatori, che contiene potenzialmente il futuro, come splendidamente scrive Emily Dickinson: "Nessun vascello c'è che come un libro possa portarci in contrade lontane."
M.S.
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