EDITORIALE
Editrice Starrylink:
la "risorsa aperta"

Il libro di Mariagrazia (tratto da "With only seven cards" di Marisa Strada

Sì, certo, ricordavo. La visita alla grande Editrice, la seduta in anticamera in attesa che l’amico che accompagnavo, che aveva appuntamento con un Direttore, tornasse. Ricordavo benissimo la scena imprevista sotto i miei occhi, orgogliosamente distaccati da quella misera tristezza.
Due donne sedevano con me sulle poltrone, l’una, giovane e agitatissima, stringeva tra le mani qualcosa che somigliava a un libro foderato in carta da pacco e continuava a percorrere su e giù il tragitto dalla sua poltrona alla gabbietta vetrata dove stava, in divisa e in atto compreso e severo, il portinaio, occupato dai suoi telefoni e dagli ossequiosi saluti agli interni che passavano a lui accanto per salire agli uffici.
L’altra donna, un donnone, una popolana variopinta, mi perseguitava l’udito, perseverando a rosicchiare quello che sembrava il suo pranzo e che traeva fuori da una grossa sporta di paglia, posta accanto alla poltrona. Le borse, per la verità, erano parecchie, come le due si fossero attrezzate a un bivacco.
«Mangia, mangia dài, stupida!» chiamava la grassona, con quel convincente e benevolo buon senso che poneva l’importanza del gustoso nutrimento al di sopra delle ansie evidenti dell’altra.
«No, no. Io non mangio. Mangia tu. Io non ho fame, io non mangio» ripeteva, invero drammaticamente, la giovane ansimante e già volgeva gli occhi a me (semplicemente perché ero l’unico essere umano che lì potesse vedere e incontrare). Mi spiava e io, da dietro il sipario del mio libro di lettura, venivo inondata da un fiume di energia sconsolata e maldiretta, da un’onda di bisogno psichico malcontrollato. Dopo insistenti sguardi e centinaia di camminate dal portiere a me, da me al portiere, si decise a chiedermi una sigaretta. Tolsi, dunque, il paravento del libro, per dargliela, e, con un po’ di timore, le sorrisi accendendogliela. La mano le tremava, gli occhi chiamavano soccorso. Era, secondo me, sull’orlo di una crisi isterica. Chiedergliene le ragioni? Fossi stata nel mio studio, l’avrei di certo fatto e di getto. Ma il codice di quell’ambiente era diverso e io ero soltanto un’intrusa, cui era civilmente richiesto di rispettare le regole comportamentali. Esse, a vedere il portiere, parevano chiarissime e, nei confronti della donna con il pacco, si manifestavano come ordine al silenzio, come dovere, insomma, di ignorarla.
Perciò repressi gli istinti che venivano dal mio codice comportamentale e frustrai la mia curiosità umana, abbassando gli occhi sul libro, come fossi impegnata a far chissà che cosa. Non lessi ovviamente più un rigo (d’altra parte, io non sono capace di leggere per finta), ma lei si convinse invece che avessi un qualche impegno importante e che, perciò, forse ero un po’ importante anch’io. Sicché provò a parlarmi:
«Aspetta anche lei il Direttore X?»
«No, no», risposi velocissima: era la verità, ma c’era anche il desiderio, nella mia fretta, di smentire ogni somiglianza tra la mia e la sua condizione, che era oscura nei moventi ma chiara negli effetti umilianti.
«Perché è qui, Signora?» mi chiese allora.
«Aspetto un amico, che è andato di sopra. Faremo poi delle lezioni insieme»
«E’ dal Direttore X il suo amico?» indagava e io fui secca e definitiva:
«Non so da quale Direttore: io non c’entro»
Si girò allora di scatto (ma io capii che non aveva rinunciato affatto a me) e si diresse dal portinaio. Questa volta si poggiò alla balaustra e, in una incredibile metamorfosi, lo richiamò con fare accattivante e disinvoltissimo:
«Allora, mi ascolti, per piacere: io non posso andarmene se non risolvo il mio problema. Su, su, mi lasci andar sopra dalla Segretaria del Direttore! Un minuto solo, lei è così cortese!» e gli strizzò un occhio.
Il portinaio era di gesso, ma il suo sguardo mi pareva un po’ turbato:
«Le ho già detto che, purtroppo, non posso farci nulla. Non si può salire, neanche dalla Segretaria, senza aver ottenuto un appuntamento. Mi sono anche preso prima la libertà di chiamarla al telefono e di metterla in contatto con lei, Signorina, ma ha sentito cosa le ha detto? Non si può, proprio non si può, è la prassi, purtroppo».
Lei, la Signorina, picchiò allora il suo pacco sul piano, sotto gli occhi del portinaio:
«E allora come faccio a far leggere questo?! Posso lasciarlo qui e lei glielo fa avere, a qualcuno?»
«No, purtroppo, Signorina. Io NON POSSO. Questo non si può mai fare. Ci sarebbero quintali di libri qui, altrimenti»
«E come li leggono i libri, allora? Spediti per posta?»
«No, no! - rise cortese il portinaio all’ingenuità sofferente di lei - Anche se spedisce, è inutile: nessuno apre i pacchi. Sa, Signorina, i libri sono veramente troppi. Dicono: per lo più brutti»
«E come lo sanno che sono brutti, se non li leggono?»
«Eh! - sospirò quell’uomo paziente - Si pensa che tutti si siano messi in mente di scrivere e di essere chissà chi, mentre sono solo frustrazioni e illusioni»
«Ma CHE COSA fanno qui allora??»
«Leggono i libri che hanno deciso di pubblicare. Sa, una volta era diverso, Signorina. Io sono qui da più di vent’anni. Altri tempi: cercavano i libri. C’era anche un ufficio apposta. Adesso sono i libri che cercano loro e devono essere già conosciuti, l’autore ... o chi lo presenta qui»
«Io ho un bigliettino di Vittorio Sgarbi! - si esaltò la giovane - che garantisce che il mio poema è di valore!»
«Oh, oh, Signorina! Questo non basta! Due righe così, senza impegno. Il critico deve telefonare al Direttore, spiegargli e prendere appuntamento. Questo (per fortuna) non è altrettanto frequente del bigliettino di presentazione»
«Devo dire a Sgarbi di telefonare?»
A quella domanda, il portinaio, che vedevo benissimo ora (avendo del tutto abbassato il libro, attratta dall’angoscia di quella scena), mi parve proprio intristito:
«Signorina, senta ... Signorina ... come si chiama?»
«Mariagrazia!»
«Bene, Signorina Mariagrazia, lei pensa davvero che Sgarbi telefonerebbe per lei al Direttore?»
«L’ho accompagnato tante volte ... per due anni ... è gentile ...»
«Oh santo cielo! - sfuggì al portinaio, che poi subito si riprese - Mariagrazia, mi ascolti: lasci stare. Di questi tempi bisogna avere sicure entrature, bisogna essere legati al critico e bisogna anche che il critico sia gradito e garante del lancio»
«Sgarbi non va bene qui? A quale Editrice va bene? Me lo dica lei, per favore, che è esperto!»
Il portinaio si alzò (forse perché lei stava in piedi) e le allungò una mano sulla spalla:
«Si rassegni, Signorina. Di questi tempi non c’è tempo, non c’è tempo per il suo libro»
«Ma è bello! - si mise a spacchettarlo, in fretta e furia - Lo legga, lo legga lei, almeno».
Almeno. Su quell’ultima parola la voce rallentava, come quietandosi. Per quanto ferita dal pietoso disgusto, fino a che quella parola non fu detta, io ero in verità restata fuori da quella scena. Tipico campione miserando della micidiale e ignorante esigenza umana di essere riconosciuti, di battere a ogni costo agli usci di chi può concederlo, riscattando tutta una vita (una delle infinite vite) bistrattata dall’indifferenza e da un vergognoso nonsenso.
Ma il prezzo era anch’esso vergogna; la vergogna più grande che io conoscessi: la vendita di quanto si considera più sacro. E io questo non l’ho mai perdonato a chicchessia: lo scambio mercantile di un libro per un po’ di successo.
Ora quella giovane scarmigliata aveva detto ‘almeno’; non poteva non capire, per quanto fosse disorientata e ignorante del nostro mondo tanto da apparire un’aliena, che la lettura da parte del portinaio del suo poema spacchettato a nulla sarebbe servita per introdursi nell’Editrice. Dunque, si accontentava forse che il suo libro fosse letto, semplicemente; da uno qualsiasi, da uno sconosciuto gentile, che non era forse più visto come custode del paradiso, ma come un uomo che aveva qualche dubbio sulla giustizia del meccanismo editoriale che le aveva descritto.
Mariagrazia voleva forse solo comunicare il suo libro, come non le era riuscito di fare né con la parente o amica che la accompagnava né con il ‘gentile’ critico che le aveva fatto omaggio d’un biglietto in cambio dei suoi servigi di accompagnatrice. Quella giovane forse cercava solo un lettore. Un qualunque lettore. Il fatto che si contentasse di ciò mi turbava profondamente, con una sensazione non molto diversa da quella che si ha vedendo in un telegiornale un bimbo che muore di fame. E io non ero, in quel caso, agevolata dalla distanza e dall’impotenza fattuale, che garantiscono la quiete della coscienza ai telespettatori. Ero in allarme, perché mi trovavo lì e nel contempo io lì non potevo essere pienamente me. Allarme giustificato perché la giovane, visto il silenzio muto e imbarazzato del portinaio, girava gli occhi alla ricerca di qualcun altro. E incontrava così i miei occhi, che un eccesso di vergogna mi impediva di riabbassare in fuga. Mi disse:
«E lei, lei cosa ne dice? E’ vero che qui non si può nemmeno far leggere un libro senza essere raccomandati?»
Pensai che il modo più ragionevole di aiutarla fosse quello di darle conferma (poiché pareva mi considerasse un’intellettuale) delle regole del gioco, secondo la mia esperienza e le mie conoscenze, e di costringerla al realismo, affinché cessasse di umiliarsi vanamente. Così, dunque, feci con parole nette e dure, che non lasciassero spazio a micidiali illusioni. Mentre parlavo, mi guardava con le labbra schiuse e gli occhi fissi. Capiva, era scioccata ma accettava di sapere. Era disgustata, ma rassegnata non proprio, mi resi subito conto.
«Bel mondo!» esclamò con rabbia sorridente, grata a me, perché aveva forse intuito che anch’io, come e persino più del portinaio, avevo molti dubbi sulla ‘bellezza del mondo’.
Ma, appena finito di esclamare, già era ripresa dall’agitazione. Si indirizzava alla donnona, per avere una sua collaborazione: voleva che richiamasse lei la segretaria del Direttore X, per dirle della raccomandazione di Sgarbi. Ma la donna, sua sorella ora apprendevo, scosse ripetutamente la testa, addentando un panino al salame, muta.
Gelata, vedevo la scossa del capo che mi girava Mariagrazia di nuovo in positura frontale. La fissai anch’io, convinta di poter controbilanciare il suo panico ribelle con l’autorità della mia perentoria disapprovazione.
Ma non è così facile per nessuna energia psichica andare in patta con quella che viene da un bisogno negato e che si rafforza della disperazione stessa. Infatti, Mariagrazia me lo chiese. Chiese e insistette pietosamente che io facessi la parte truccata, ridicola e vana, che la sua accompagnatrice rifiutava. La mia voce restò calma, nonostante il fastidio acuto, e le ritagliò netto non solo l’ovvio rifiuto ma anche la sintesi del mio parere, o consiglio che si voglia intendere.
«Riprenda quel libro, lo rispetti almeno lei» conclusi alle sue proteste, urlate in nome di una ‘Giustizia’ che non mi pareva neanch’essa un principio da lei effettivamente rispettato. I suoi occhi mi dicevano che capiva. Ma capire certo non basta.
Sicché, sotto i miei di occhi, la giovane tirò fuori il borsellino, estrasse un biglietto da cinquantamila lire e, tutta tirata in viso da uno spregiudicato sorriso, esibito anche con l’orgoglio di chi ha capito il gioco, si diresse e rivolse al portinaio:
«Questo è per lei. Gli fa avere il libro, in qualche modo».
Il dubbioso portinaio in questo caso non ebbe ombra di dubbio e il suo viso riflettè la pietà profonda (che io invece non provavo più), mentre rifiutava con qualche parola di conforto e con l’impegno a leggere lui il libro, che, disse, senz’altro era bello, si vedeva.
Mariagrazia insistè, iterando il gesto d’offerta del bigliettone (per lei come un tesoro), finché si spossò, io credo, fisicamente, di sollevar la mano in aria, sventagliando il denaro sotto gli occhi del pazientissimo e tristissimo custode del miraggio di successo.
Quando si girò, tornando alle poltrone, io avevo già ripreso il mio libro e la cosa che meno desideravo era di guardarla di nuovo in viso.
«Aspetterò che passi qualcuno e lo bloccherò. Starò qui finché non scende il Direttore X» licitò, sedendosi, come a se stessa, ma era una sfida, al portinaio e forse anche a me. A questo punto la mendicante scrittrice capiva di suscitare due sentimenti spiacevoli e faticosi, il disgusto e la pietà, e ricattava, facendone l’arma unica della sua forza contrattuale, cioè imponendo la sua presenza sgradita, e perturbante per una serie assai lunga di ragioni.
Capiva giusto, ma non ne sapeva abbastanza del ‘bel mondo’ certamente. Non sapeva che questo ricatto è sempre perdente. Perché, per quanto fastidiosi, pietà e disgusto sono solo sentimenti, mai competitivi con i fatti, e annientabili con l’indifferenza, cui si può far agevolmente ricorso, basta avere un po’ di allenamento.
Mi tolsi il sipario dalla faccia e l’avvisai:
«Lei non ha capito a sufficienza: che lei non ha i mezzi per riuscire e sarà solo umiliata di nuovo. Vada subito via di qui».
Mi fissava, come volesse carpirmi un segreto.
«Cosa devo fare, allora?» mi chiese in un raptus di dubbiosità.
«Scriva e rinunci al successo» le resi, con altrettanta sincerità. Lei purtroppo, credo, l’avvertì la mia sincerità, sicché m’arrivò il suo orribile interrogativo:
«E’ scrittrice anche lei?»
«No. Io sono professoressa. Insegno».
Ricordo che sbattè le palpebre in modo piuttosto strano. Poi, come convinta di colpo, disse:
«Vado via» e mi salutò con una strana reverenza.
Impiegarono qualche minuto, Mariagrazia e la sorella, a fare fagotto, rumorosamente. Ma infine uscirono davvero, con grande gioia del portinaio, che, appena scomparse le due, iniziò a esternarmi la sua soddisfazione (e forse gratitudine), ripigliando da capo tutta la storia della trasformazione dell’editoria, parlandomi della sua pietà per i tipi come quella, che erano più numerosi di quanto si potesse immaginare e via di seguito.
Non dico che io mi rendessi ben conto del mio peccato d’orgoglio (anche perché di giustificazioni ne avevo fin troppe), ma certo stavo a disagio…